Ma non è solo una questione nominalistica, un titolo. Come hanno osservato alcuni esperti è smart-working quello fatto mentre sei praticamente in vacanza. E’ “agile” se il dipendente lo richiede per far fronte ad una situazione personale per cui ha bisogno di riorganizzare i propri tempi in cui avviene la prestazione d’opera. E’ telelavoro se si svolge sostanzialmente nello stesso modo tradizionale ma da remoto. Quello che ha svuotato le redazioni
in questi mesi somiglia molto più a quest’ultimo.
Su questi processi, la Federazione Nazionale della Stampa, e per quanto ci riguarda l'Associazione Stampa Toscana, stanno aprendo una riflessione coraggiosa. Il tema, non a caso, è stato al centro dell’ultima riunione della Giunta esecutiva della Fnsi con i rappresentati delle Associazioni regionali di stampa. La preoccupazione principale è che gli editori, nonostante ufficialmente vi siano state smentite, possano pensare a “stabilizzare” questa organizzazione del lavoro anche in una situazione normalizzata rispetto all’emergenza dettata dalla pandemia. Difficile, infatti, non pensare ai molti tentativi, sempre respinti ma mai sopiti, di depotenziare il contratto nazionale di lavoro giornalistico, magari attraverso la trasformazione di molti “articoli 1” in collaboratori lontani dalle redazioni, rendendo il loro lavoro più simile a quello dei tantissimi colleghi precari, sui quali viene riversato il peso maggiore della crisi dell’editoria.
Si tratta di un processo che rischia di andare nella direzione opposta a quella che è da tempo la stella polare del sindacato, cioè l’inclusione di tutti in un quadro di lavoro “buono” e adeguatamente retribuito. In più è da evidenziare che l’organizzazione del lavoro nell’era del Coronavirus, oltre a rompere il continuo confronto ed il lavoro collettivo proprio delle redazioni che nessuna chat può sostituire, è stata spesso interpretata “al ribasso”: solo in pochi casi c’è stata assistenza tecnologica in termini di strumenti di lavoro e di connessioni efficienti per svolgerlo, pressochè nessun rispetto degli orari di lavoro, sospensione dei ticket sostitutivi della mensa che ormai sono di fatto parte della retribuzione.
Tuttavia - ed anche su questo va avviata una seria riflessione – questo temporaneo e nuovo modo di lavorare, dopo un iniziale disorientamento, ha incontrato il favore di tanti colleghi: taglio di tempi e costi per raggiungere la sede di lavoro (per poi magari ripartire per un servizio), un’organizzazione più flessibile in base ad esigenze personali o familiari, etc. E’ difficile immaginare il lavoro del giornalista fatto senza una dimensione collettiva, ma soprattutto è impossibile pensarlo senza diritti che, proprio a causa di quella dimensione collettiva più rarefatta, possono essere messi a rischio o apertamente violati. Ma mettere la testa sotto la sabbia e far finta che tutto possa tornare esattamente come prima non è la strada giusta. Il lavoro cosiddetto “agile”, secondo le norme, è materia che riguarda esclusivamente il rapporto tra dipendente e datore di lavoro. Il sindacato, in pratica, non ha titolo ad intervenirvi. Ma quando la richiesta di “agilità”, o la sua necessità come nel caso della pandemia, non riguarda dei casi singoli ma intere redazioni, decine o centinaia di giornalisti, la questione diventa di organizzazione complessiva del lavoro ed il sindacato non può essere lasciato fuori. O peggio che mai non può rinunciare dall’intervenire e chiamarsi fuori, proprio perché il patto che ci lega è quello di non lasciare mai soli i colleghi. Soprattutto quando rischiano di essere ancora più soli. Ecco perchè Ast intende aprire un confronto con gli iscritti: soprattutto per essere pronta a portare un contributo serio al tavolo nazionale.