La sentenza, pubblicata il 19 maggio 2020, riguarda i giornalisti dell’ufficio stampa di Roma Capitale e vale, in punta di diritto, solo per loro: il precedente non ha valore infatti nell’ordinamento italiano, a differenza del diritto di ‘common law’ anglosassone. Nel caso finito davanti ai giudici la Corte di appello di Roma ha confermato quanto già stabilito in primo grado il Tribunale del lavoro della stessa città e per gli stessi colleghi.
La sentenza, anche se giuridicamente obbliga solo il Comune della capitale, fissa però un punto che deve valere come buona pratica. Dice che il giornalista – per il requisito richiesto dell’iscrizione ad un ordine professionale e per il ruolo che gli è affidato – non può essere inquadrato al livello C. Deve essere un “D”: di più, non può essere solo un D1 ma almeno un D3.
Questo spiegano i giudici e di ciò, come buona pratica, è auspicabile che tengano conto i Comuni (tutti) chiamati a bandire futuri concorsi per posti di giornalista, così come dovrà essere un elemento ben presente ai tavoli Aran, dove la Fnsi, sarà chiamata a definire i dettagli del profilo di “giornalista pubblico” introdotto nel 2018 con l’ultimo contratto del pubblico impiego e nelle discussioni pure sul progetto di riforma del settore della comunicazione e informazione pubblica avviato dalla ministra Dadone.
Nel caso del Comune di Roma le colleghe e i colleghi, tutti iscritti all’Ordine dei giornalisti, erano stati stati inseriti nell’Ufficio stampa dell’ente ma non erano stati inquadrati come D3, a differenza di quanto avvenuto per altri ex-VIII livello, categoria riservata dalla pubblica amministrazione per gli iscritti ad ordini professionali. I giudici, sulla base delle testimonianze e dei documenti acquisiti, hanno verificato lo stabile svolgimento di funzioni giornalistiche e quindi riconosciuto ai colleghi la differenza di retribuzione per i cinque anni precedenti alla contestazione. Oltre vige la prescrizione. Il Comune di Roma è stato condannato a pagare le spese legali.