La Corte ha rilevato che «un'indennità costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l'esigenza di adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda» e non rappresenta un «rimedio congruo e coerente con i requisiti di adeguatezza e dissuasività affermati dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020» della stessa Corte.
«Il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge – spiega la Consulta – conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti». Tale criterio, «in un quadro dominato dall'incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi», non è indicativo della effettiva forza economica del datore di lavoro e non offre neppure elementi significativi per determinare l'ammontare dell'indennità secondo le peculiarità di ogni singola vicenda.
Spetta tuttavia alla valutazione discrezionale del legislatore la scelta delle soluzioni più appropriate per garantire le auspicate tutele adeguate. Di qui l'urgenza di una riforma sollecitata dalla Corte, che, nel dichiarare l'inammissibilità delle questioni, segnala come «il protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile» e pertanto avverte che qualora la questione fosse riproposta, essa stessa provvederà direttamente a intervenire sulla disciplina censurata.